Risucchiato da attacchi di ansia.
Il ticchettio di un orologio analogico scandisce bene ogni
sfumatura emotiva che ognuno di noi prova durante un attacco ansiogeno. L’immobilità
di un respiro, il dimenticarsi del tempo che scorre. La consapevolezza di sapere che bisogna pensare a qualcosa,
e sentirsi incatenati da briglie che strozzano l’anima e la volontà.
Non è facile destarsi dal proprio torpore quando ci si sente
al sicuro durante un esperienza piacevole e sensoriale. Non è altrettanto
facile svegliarsi da un incubo quando la paura ti inchioda alla sfrontata
verità di una situazione contro cui riusciamo a malapena a considerare qualche
elemento, mentre persi in noi stessi cerchiamo di capire cosa dobbiamo o
dovremmo fare.
Il futuro ci assale. Le emozioni scalpitano. Il nostro corpo
è impazientemente irrequieto. La libertà di fare tutto ciò che possiamo soffoca
ogni istinto di ribellione. Se solo sapessimo cosa fare. Se solo
sapessimo come fare a migliorare questa nostra misera condizione!
Ci addentriamo sempre di più nel silenzio attonito delle
nostre menti. Instancabili, sprofondiamo nei nostri pensieri alla ricerca di
qualche filone di parole e significati, solo per scoprire sbigottiti l’eco del
silenzio del nostro stesso ego. Cosa si può fare? Come sbloccare questa
maledizione? Perché non riusciamo a scavalcare i nostri stessi limiti che
neanche percepiamo durante tutta questa nostra ricerca?
Attacchi di ansia passati, presenti, e futuri.
La vera paura aleggia sotto la nostra finta solitudine
interiore. Sappiamo discernere bene la distanza tra le cose reali ed i falsi
pensieri che vorremmo ci staccassero dalla realtà tangibile che ci circonda. Ma
preferiamo essere schiavi. Schiavi di una realtà che ci controlla. Carnefici
della nostra stessa accidia, ci abbandoniamo lascivi ad una filastrocca di
lamenti, scuse e perdite di tempo. Temporeggiamo. Temporeggiamo perché così non
abbiamo bisogno di pensare. Temporeggiamo perché così non abbiamo bisogno di
affrontare quella dannata verità che tutto dipende da noi.
Le nostre azioni si affermano in una realtà che raramente ci
pare migliori. Le sfide di ogni giorno sembrano vogliano ricordarci l’impotenza
da cui siamo nati, e contro la quale ci scontriamo. Quasi sempre miseramente, perché
tendiamo a voler far scivolare quegli attimi di gioia passata sotto un velo
setoso di triste misticismo. Qualcosa che non ci appartiene. Figli dell’oscurità
regnata da un senso di mortalità, siamo felici di rimettere la nostra identità
di padroni, per i frutti che la disperazione futura ci tenta, come il ciglio di
un abisso in cui potremmo rovinosamente cadere, e che invece ci stuzzica
percorrere passo per passo proprio sul crinale.
Non vi è scampo alla assuefacente riduzione di se stessi.
Non si vuole lo staccarsi da quel melodioso ed attraente suono che è la nostra
sensazione di “mancanza.” Il senso, l’emozione che da il perdere qualcosa, sia
essa noi stessi. Siamo troppo presenti a noi stessi in questo mondo per non
goderci finalmente l’ansia di perdere noi stessi e la nostra importanza. Le
nostre azioni decadono in un vuoto di significati, la nostra attenzione vaga senza senso nel labirinto della nostra cecità. Ci sentiamo liberi di infliggerci
qualcosa che va oltre il dolore e la paura, perché quando ci sentiamo
schiavi di noi stessi non facciamo che finalmente affermarci padroni di tutto
ciò che è nel nostro dominio. Ammaliati re e regine liberi dal proprio potere!
Potremmo perdere questa ansia con un battito di ciglia.
Potremmo smetterla di negare la cause. Potremmo agire e diventare
vittime degli eventi. Ma perché farlo? Lontani sono i tempi dell’infanzia dove
ogni errore era solo un esperienza. Ora siamo vittime di un gioco sociale le cui
regole non abbiamo scelto noi. Non è il nostro gioco. Non è un gioco che ci
piacerebbe vincere. Non ha senso vincere. La paura di ammettere che vorremmo
poter vincere è più scomoda della certezza della nostra incapacità. E così ci
abbandoniamo. Così noi crolliamo. È così che noi abbracciamo l’ansia. Il futuro non è così roseo se non
quando sei certo di aver paura del futuro che ti aspetta. Perché la paura è una garanzia che non può
deluderti; la felicità è breve.